MAGGIO — AGOSTO 2017

Gastronomia

Prosecco, un delicato piacere

A cura di Massimiliano Beretta

Una volta passato il buio e freddo inverno, spalanca le proprie porte la stagione primaverile, con le giornate tiepide e in molte zone addirittura calde, la natura riprende una fase di evoluzione e crescita, interrotta qualche mese prima — si dice che la natura spinga — e lo fa per ogni aspetto e con ogni modalità.

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Le temperature piacevoli, le ore di luce che aumentano, la voglia di prolungare le giornate all’aria aperta stimolano i nostri sensi a ritrovare un nuovo equilibrio alimentare, desiderando cibi più leggeri e allegri, delle più svariate sfumature cromatiche, che si accompagnano in modo splendido con vini brillanti e freschi, che vengono golosamente trangugiati in maggiore quantità, visto il piacere che concedono, il basso titolo alcolomentrico e la calorosa sensazione di giovialità che tutto questo insieme racchiude.

Da sempre il vino è considerato cultura: in Italia la cultura del vino e del cibo hanno viaggiato di pari passo e il vino è sempre stato considerato a tutti gli effetti un alimento.

Negli ultimi anni, esso ha perso questa sua veste, smettendo i panni di essere considerato un modo per dare energia e calorie al proprio corpo, ma per soddisfare il piacere e il relax, il bisogno di concedersi una delicata carezza, che precede il pasto, o persino lo segue, lo accompagna e lo chiude.

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Parliamo dunque di un vino che soddisfi tutti i momenti sopradescritti, che non sia esageratamente impegnativo e che possa dare una moderata euforia, linfa indispensabile della vita… ecco quindi che con il suo colore cristallino, i profumi agrumati e floreali e le sue splendide catene di bollicine, ovviamente servite in un bicchiere adatto e quindi ampio — come da tradizione si consuma nelle zone di produzione — e dove può procurare il maggiore piacere per occhi, naso e palato.

Se ancora vi erano dubbi, stiamo parlando di Prosecco, ma proprio perché si sta parlando di un vino che teoricamente tutti conosciamo, riteniamo sia interessante fare un pochino di chiarezza, sfatare alcuni miti e spezzare qualche stereotipo a riguardo.

Come dicevo poc’anzi, questo vino va consumato in un bicchiere ampio, con una forma non precisamente definita, ma che troverebbe la declinazione corretta in quella “a tulipano”, come aperitivo ricco certo, ma può accompagnare interamente anche il pasto, se in possesso di una struttura e una persistenza adeguate: pensatelo con un risotto agli asparagi, una pizza semplice, delle orecchiette agli odori, una lombata di coniglio, ovviamente crostacei e pesce in genere sono un accostamento abbastanza scontato, così come salumi magri e torte salate.

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Evitate quindi l’inutile flûte, certo elegante e nobile, ma non adatto a una tipologia di vino che richiede bevibilità e rilassatezza.

Evitate anche di far saltare il tappo, di qualsiasi tipo sia, evitate di servirlo non freddo, perché altrimenti il liquido uscirebbe dalla bottiglia sotto forma di schiuma, evitate le bottiglie piccole, evitate le tipologie troppo economiche… meglio bere una buona bottiglia una volta la settimana, piuttosto che due meno buone!

Evitate anche di generalizzare, perché ci sono differenze molto grandi tra vini di collina e di pianura, e addirittura nelle stesse colline ci sono grandi differenze, evitate i vini di classificazione zuccherina troppo alta, a meno che non provengano dalla cru Cartizze, ma approfondiamo di più e meglio.

Le regioni dove il Glera, vitigno principale per la produzione di Prosecco, viene coltivato e fornisce i migliori risultati, sono Veneto e Friuli Venezia-Giulia, quindi la parte a est del nord Italia. All’interno della regione Veneto si trovano due zone più piccole, dove queste uve e questi vini raggiungono l’eccellenza, aiutati anche dalla DOCG, denominazione di origine controllata e guarantita, che sono Asolo e Valdobbiadene.

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All’interno della DOCG Valdobbiadene vi sono alcune parcelle ben definite, che donano caratteristiche precise ai vini, in Francia le chiamerebbero Cru, ma qui vengono denominate Rive, e hanno la peculiarità di essere zone particolarmente impervie e declivi, di più difficile lavorazione, ma dove si ritrovano ottimi risultati finali. Esiste una sottozona di Valdobbiadene piccola, alta e impervia, con uve e vini di grandissima qualità, chiamata Cartizze, formata da 3 frazioni del comune di Valdobbiadene: S. Pietro di Barbozza, S. Stefano e Saccol.

Cartizze è il Valdobbiadene con il tenore zuccherino più alto, di maggior struttura e corpo, la parte più alta della denominazione: le sue uve sono protette dal caldo della pianura, dal vento freddo delle montagne, dall’umidità… e grazie alle escursioni termiche le uve sono ricche di aromi freschi ed eleganti.

Ma quali sono le ragioni per le quali il Glera dà i migliori risultati in questa zona, oltre ai terreni declivi, alla protezione delle montagne e alle cure attraverso la preziosa mano dell’uomo, sono le caratteristiche del terreno: infatti le montagne che proteggono queste zone erano una barriera corallina circa 5 milioni di anni or sono. Le colline sono quindi formate da due processi distinti: il primo dovuto al sollevamento del suolo marino, il secondo dovuto all’accumulo di detriti portati dalle glaciazioni. Da questo ne derivano grandi frammentazioni nelle tipologie del terreno, oltre al fatto che sia permeabile. Ne consegue che le radici della vite dunque sono costrette a scavare in profondità per trovare tutti gli alimenti idonei per caratterizzare le uve e quindi i vini.

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La classificazione dei vini frizzanti e spumanti avviene secondo la quantità di zuccheri presenti nel vino, che possono quindi portare a distinguere:

Extrabrut — fino a 6 g/l
Brut — fino a 12 g/l
Extradry — da 12 a 17 g/l
Dry — da 17 a 32 g/l

Subito si nota la possibile sovrapposizione delle classificazioni: quindi uno spumante con 8 g/l può essere classificato sia Extrabrut che Brut, oppure uno con 17 g/l può essere classificato come Extradry oppure Dry.

Conosciamo adesso il modo di scegliere consapevolmente un Prosecco, ma perché si chiama in questo modo e come si è arrivati a tutto questo?

Coltivato fin nella Roma Imperiale, il Prosecco deve il proprio nome a un piccolo paese vicino Trieste, in una zona con terreno carsico e molto ventilata, adatta quindi alla coltivazione della vite.

Vino preferito da Livia, la consorte dell’Imperatore Augusto, e citato da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, veniva chiamato Puccino e promosso in tutte le corti nobili europee all’inizio del Medioevo, allietandone i banchetti. Venne dunque incoraggiata la coltivazione in tutto il Veneto, ma trovò corrispondenza perfetta con le zone collinari a ridosso delle montagne, soprattutto nelle zone di Valdobbiadene e Asolo.

Dunque, quando chiediamo un Prosecco in enoteca o al ristorante, vuol dire tutto e niente, poiché si commette l’errore di generalizzare. Quindi sarebbe bene conoscere la zona di produzione e la classificazione di quello che si chiede: il territorio è fondamentale per il vino, così come per altri prodotti della terra. Dunque chiedere un Prosecco o un Valdobbiadene o Asolo o Cartizze fa tantissima differenza, accentuata ancora di più se chiediamo concretamente di un produttore: questo significa essere precisi e consapevoli circa quello che vogliamo consumare.

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Ma in modo veloce vediamo come si produc: una volta vendemmiate, le uve vengono pigiate delicatamente in una pressa, poi si ottiene il mosto, si introduce in un’autoclave — un grosso contenitore di acciaio inox termocondizionato ed ermetico — e alcuni aggiungono lieviti selezionati. Comincia la fermentazione e si ottiene il vino base, poi successivamente si aggiungono lieviti selezionati e una piccola quantità di zuccheri, in modo che riparta la fermentazione e si ottengano anidride carbonica e la classificazione desiderata.

Tuttavia, il Prosecco che conosciamo oggi e che impropriamente chiamiamo in tal modo generalizzando è molto diverso dal vino tradizionale, che ottiene i migliori risultati e viene consumato maggiormente nella zona di produzione dello stesso.

C’è da sapere che l’autoclave fu inventata tra il 1895 e il 1910: allora come era possibile produrre questo vino in modo tradizionale? Ebbene, con i lieviti all’interno della bottiglia e con il rialzo primaverile delle temperature, si può far partire la seconda fermentazione, creando le catene di bollicine che tanto amiamo.

Il vino più tradizionale di chiama Col fondo o Con lieviti ed è “longevo” e “versatile”, vera espressione della tradizione di fine ‘800.

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Dunque, ricapitolando, quando si parla di Prosecco classico si parla di vino con lieviti in bottiglia, che i consumatori di tutto il mondo stanno riscoprendo, un vino semplice ma molto complesso e versatile, che al contrario degli altri vini della denominazione non deve necessariamente essere consumato entro 18/24 mesi — con una ricerca dell’Università di Udine si è constatato che l’età media di maturazione in bottiglia è di 16 anni, con punte che passano anche i 20 — quindi anche in questo caso è sfatato il mito del Prosecco da consumare giovane e che non possa essere un vino da dimenticare in cantina: sempre dipende dalla tipologia di vinificazione, ma è una regola che vale per tutti i vini.

Concludendo, dipende sempre dai gusti, un frizzante con lieviti avrà sentori di crosta di pane e agrumi come limone e pompelmo, un Valdobbiadene o Asolo mela verde e molta florealità, un prosecco di pianura burro e frutta tropicale, un Cartizze torta al limone e bucce di agrumi, insomma abbiamo l’imbarazzo della scelta, ma la cosa importante è sempre scegliere consapevolmente e secondo i propri gusti e possibilità.

MAGGIO — AGOSTO 2017