№ 1-2 GENNAIO - FEBBRAIO 2016
Gastronomia
La grande famiglia del Nebbiolo
Come già anticipato nei precedenti articoli, ogni vino è paragonabile al carattere di una persona, e per la comprensione di ogni carattere è utile conoscere il contesto sociale di ogni individuo, e cioè la zona di appartenenza, l’andamento dell’annata e la vinificazione di ogni vino.
Ritengo quindi necessario iniziare proprio dalla storia che insieme al contesto ci fornirà una chiave di lettura per comprendere questo meraviglioso vitigno e quanto siano diverse le sue espressioni dovute al terroir di provenienza. Il Nebbiolo è uno dei vitigni più impegnativi sia da coltivare che da degustare, ed è utile e necessario avere preparazione approfondita per comprendere ogni sua sfumatura, ogni passione e ogni trabocchetto che questo può celare.
Poiché il vitigno Nebbiolo riesce a dare vini estremamente diversi, interessanti e longevi, è opportuno comprendere da cosa derivano tutte queste differenze e in che modo influenzano il risultato finale. Intanto abbiamo due principali zone dove questo si esprime nelle sue accezioni migliori: le famosissime Langhe, patria dei vini Barolo, Barbaresco, Roero e del preziosissimo tartufo bianco, e una zona pedemontana alpina della quale fanno parte nord Piemonte e Valtellina in Lombardia, conosciute per vini meravigliosi come Lessona, Bramaterra, Ghemme, Gattinara, Boca, Sforzato di Valtellina e meravigliosi formaggi come Castelmagno in Piemonte e Bitto in Valtellina.
La derivazione e la composizione dei terreni è molto diversa: è necessario fare alcuni passi indietro e tornare nell’era Eocenica, tra 55 e 34 milioni di anni or sono, durante la trasformazione della crosta terrestre e la formazione delle principali catene montuose, dove i terreni prossimi a queste ultime hanno uno strato di argilla poco profondo a cui seguono roccia e minerali. La Valtellina è caratterizzata dalla presenza di granito, mentre la zona di Gattinara da porfido, quindi terreni a reazione acida che trasmetteranno la caratteristica ai vini.
Le Langhe erano invece un golfo marino, che durante la trasformazione è diventata dapprima una palude e successivamente una zona collinare. Queste sono composte da Marne argillo-calcaree sedimentarie e si differenziano tra loro in quattro tipi di suolo. Citeremo i tre più importanti e non entreremo nelle specifiche intrinseche del terreno, ma semplicemente nelle caratteristiche che queste possono dare alla personalità del vino, e nello specifico del Nebbiolo dedicato al Barolo.
Le Marne di S. Agata sono presenti nella maggior parte della zona di produzione della denominazione Barbaresco e tra i comuni di Barolo e La Morra e non trasmettono grandissima potenza e longevità, ma donano eleganza e finezza. Dove prevalgono le formazioni di Lequio, intorno al comune di Serralunga, si avranno Barolo di importante struttura e tannino, più ruvidi e meno gentili, ma con un potenziale di invecchiamento straordinario. Infine, al centro delle Arenarie di Diano ci sono Monforte e Castiglione Falletto, che danno i Barolo più equilibrati e che giocano tra potenza ed eleganza, con i sentori più classici per la denominazione di confettura di ciliegie e sottobosco.
Queste tipologie di suoli hanno caratteristica comune di essere a reazione sub-acida, con la possibilità quindi di avere una maggior quantità di polifenoli nel Nebbiolo e quindi colori più intensi e appassionati rispetto alle uve della zona pedemontana. Il Roero è più sabbioso che calcareo, con reazione più acida rispetto le Langhe e quindi con vini più magri, freschi e scorrevoli.
Dopo aver fatto una panoramica generale sulle tre macrozone principali, considerando il Roero facente parte della macrozona Langhe, all’interno di ognuna di queste ci sono microzone con caratteristiche molto diverse tra loro, che a loro volta hanno al loro interno ulteriori microzone denominate cru, con caratteristiche diverse per esposizione, altezza e tipologia degli impianti… insomma, una capillare frammentazione dove ogni terreno, ogni produttore, ogni cru sceglie e/o determina la tipologia e le caratteristiche del vino o dei vini che gli appartengono.
Chiaramente, il suolo è una parte importante per la qualità finale delle uve e, come detto inizialmente, la terra su cui poggia la vite è paragonabile alla zona e al contesto sociale nei quali vive una persona. Ma anche le condizioni meteorologiche e la cura delle persone forniscono ulteriori indicazioni per quello che sarà il risultato finale: sole, pioggia, escursione termica, unite ad affetto e passione per la pianta, daranno il risultato migliore, con grappoli sani e succosi che per non subire stress, dovranno essere selezionati e vendemmiati manualmente.
Ma perché questo meraviglioso vitigno, espressione di contesto e territorio, si chiama Nebbiolo?
Ci sono due tesi non confermate: la prima è meno probabile e si basa sulla grande quantità di pruina presente sugli acini del grappolo, che li rende color bianco ghiaccio e che quindi ricorda la leggera foschia autunnale; la seconda — e anche la più accreditata — si riferisce al tempo di maturazione delle uve, essendo il Nebbiolo uva tardiva, da vendemmiare tra la metà di ottobre e gli inizi di novembre, quando le colline langarole sono abbracciate dalla nebbia fitta, per cui da nebbia deriva Nebbiolo.
Qualche produttore molto legato alla tradizione, scrive sulle bottiglie Nebiolo con una sola b, perché più fedele a Nibiol, presente su documenti storici e ancora conservati relativi alla fine del XIII secolo, ma la storia del vitigno Nebiolo o Nebbiolo non è così recente ed è necessario mettere in evidenza alcune note storiche per avere una panoramica generale e per comprendere i motivi che hanno portato il Barolo a essere considerato il vino dei Re e il re dei vini.
Prima i Liguri Stazielli, poi i Galli e successivamente i Romani erano presenti e consumavano i vini delle Langhe più di 2 mila anni or sono, tanto che Giulio Cesare, di ritorno dalla campagna di Gallia, diede ordine di portare a Roma una considerevole quantità di vino prodotto in queste zone e sia Plinio il Vecchio che Columella ne decantarono la qualità e la straordinaria concentrazione.
Il Nebbiolo, dunque, dava vini straordinari e apprezzati, ma per arrivare alla storia e al blasone del Barolo, dobbiamo fare un salto temporale: partiamo dalla prima citazione di Barol che possiamo trovare in uno scambio di documenti del 1751 tra un inviato della Casa Reale Savoia e funzionari del Regno di Sardegna, poi alcuni tentativi non riusciti, maldestri o sfortunati o boicottati di far degustare il vino ai Reali britannici, per passare al secolo successivo e parlare di quattro personaggi vissuti nel XIX secolo, prima di tutto la vera artefice fu Giulia Colbert Falletti Marchesa di Barolo, donna altruista, di grande sensibilità e intuizione, Camillo Benso Conte di Cavour, il Re Carlo Alberto e il suo successore Vittorio Emanuele II.
Il vino prodotto da vitigno Nebbiolo a Barolo in quegli anni dava un vino frizzante e amabile perché probabilmente i primi freddi interrompevano la fermentazione, per questo motivo la Marchesa di Barolo, stanca di questo vino complesso e con importante mineralità, ma in effetti abbastanza stucchevole, volle come supervisore di vinificazione alle sue cantine Louis Claude Oudart, enologo francese nato in Champagne e commerciante di vini insieme a un cugino a Genova. Questi era famoso per il coraggio e l’intuizione dei suoi esperimenti sulla vinificazione, soprattutto nei confronti del Nebbiolo di Neive, quindi i primi Nebbiolo secchi furono Barbaresco non Barolo, per questo motivo si propose a Camillo Benso Conte di Cavour di occuparsi delle vinificazioni nelle tenute di famiglia a Grinzane e il passo per arrivare a Giulia Colbert Falletti fu breve.
La collaborazione portò a una sostanziale modifica strutturale, perché in precedenza le botti per la fermentazione del vino erano all’esterno delle cantine e quindi il vino soffriva delle temperature poco costanti. Oudart fece in modo che ci fosse maggior attenzione in vigna per i concimi, per le uve e per il vino in fermentazione, facendo sì che questo potesse dislocarsi nelle cantine scavate sottoterra e quindi avere temperature ideali e costanti durante tutto l’arco dell’anno: questo semplice ma sostanziale accorgimento permise al vino di subire minori stress e di lavorare in modo ottimale grazie a temperature costanti, consentendo una partenza e un seguito di fermentazione dovuto anche alla presenza di lieviti in cantina, oltre a quelli indigeni già presenti normalmente sulle bucce degli acini.
Nello stesso periodo storico di Oudart, il generale-enologo Staglieno, amico dei Savoia, razionalizzò la vinificazione con l’ausilio di una cantina attrezzata e moderna (la famiglia reale se lo poteva permettere) e circa questo scrisse anche un testo. Fu anche il primo a comprendere le reali potenzialità di affinamento del Barolo. Tuttavia, in alcune occasioni, il suo metodo non ottenne il risultato migliore e si ritornò a vinificare in tini aperti perché si era constatato che il vino acquisisse la propria personalità in modo più veloce e fedele.
Si narra dunque che Re Carlo Alberto chiese alla Marchesa di Barolo di degustare questo vino prodotto a Barolo (in realtà le tenute dei Marchesi di Barolo spaziavano sull’asse Barolo-Serralunga) e questa spedì alla Corte Reale tanti carri quanti i giorni dell’anno meno i quaranta relativi alla Quaresima, ognuno con una botte di vino Barolo, in modo che i Reali potessero degustare ogni giorno un vino prodotto con Nebbiolo, che evolvendo con una microssigenazione lenta potesse avere declinazioni e quindi gusto diverso: il vino piacque molto e fu il primo passo per la promozione del Barolo.
Il Barolo divenne il vino ufficiale di Casa Savoia, di alcuni castelli con annesse tenute che producevano tale vino furono acquistate, del Castello di Verduno e delle tenute Fontanafredda, e la casta nobiliare europea lo volle degustare e avere nelle cantine nobiliari o di castello. Altro piccolo aiuto alla promozione fu quello di utilizzare bottiglie in vetro che arrivavano direttamente dalla Francia.
Per comprendere ancora meglio cosa significhi il Barolo, possiamo leggere la storia attraverso alcuni produttori tutt’oggi presenti e assolutamente blasonati: Giacomo Borgogno e figli (1761), Giacomo Conterno (1770), Marchesi di Barolo (1861), Francesco Rinaldi e Barale (1870), per citarne solo alcuni, e visitando le cantine storiche si possono vivere emozioni e passioni che sono necessarie per amare questo vino e queste zone, che nel 2015 sono entrate a far parte del patrimonio mondiale UNESCO.
Il Barbaresco, sempre creato con il vitigno Nebbiolo, non ebbe le stesse possibilità di promozione del vicino Barolo, ma molti generali e nobili lo preferivano al Barolo, perché si faceva attendere meno ed era più pronto e più elegante in linea generale: queste caratteristiche ne fanno un vino maggiormente comprensibile al consumatore che resiste al blasone del Barolo.
Il Roero, la Valtellina e il nord Piemonte sono zone in cui il Nebbiolo si esprime con caratteristiche e declinazioni diverse, zone poco conosciute al turismo di massa, eccezion fatta per la Valtellina, unica citata che si trova in Lombardia ed è circondata da comprensori per gli sport invernali e stazioni termali, ma comunque poco conosciuta a livello vitivinicolo.
Il Nebbiolo ha caratteristiche generali di granato scarico, talvolta color mattone e tannini importanti concentrati nella buccia e nei vinaccioli: questo ne fa un vino impegnativo da degustare quando è appena vinificato, ma con giuste accortezze e affinamento dona amorevoli e ammalianti sfumature che riportano il vino al territorio di provenienza.
Il Roero esprime il proprio territorio con meravigliose note minerali e delicate, il nord Piemonte con le diverse zone, da ovest verso est con Carema, Lessona e Bramaterra e le loro declinazioni floreali fresche e macerate, il Gattinara potente e rigido, il Boca misto di frutto e sentori ematici, il Ghemme di eleganza, ottima mineralità e potenza, la Valtellina dove ogni sottozona si identifica con diversi sentori, Valgella con mandorla e leggero pepe, Inferno con viola e prugna matura, il Sassella con rosa appassita e lampone e il Grumello con fragola e nocciola.
Per terminare, come avrete avuto modo di dedurre, il Nebbiolo ama la vicinanza delle montagne e le escursioni termiche tra il giorno e la notte, che questi contesti possono fornire, ama il fresco e odia il caldo, in annate calde si esprime con frutto imponente e rotondo e manca di quelle note eleganti e fini, manca in tannino e manca di quelle caratteristiche che gli consentono un lunghissimo affinamento, ma anche in annate poco favorevoli. Il vignaiolo che segue personalmente con amore e dedizione la propria vigna riuscirà a interpretarla al meglio e avere il miglior risultato possibile, come un padre di una grande famiglia che gestendo le personalità dei figli cerca la migliore interpretazione affinché ognuno ottenga il massimo risultato possibile, secondo le proprie caratteristiche intrinseche.
№ 1-2 GENNAIO - FEBBRAIO 2016