№ 5-6-7 MAGGIO - LUGLIO 2016

Letteratura

Renzo Piano, La responsabilità dell’architetto, Passigli Editore, 2014

A cura di Simonetta Sandri

Conversazione con Renzo Cassignoli: un testo da leggere e rileggere. Un must assoluto per chi voglia conoscere il grande architetto italiano Renzo Piano e comprendere come egli interpreti un mestiere creativo come il suo, fatto di regole ma anche di molta magia. Un insieme potente di arte e scienza, un manipolare la materia con capacità e intelligenza, anche emotiva. Il lavoro dell’architetto è fortemente contaminato dal dialogo con la gente e le sue necessità, un incontro con culture e fra culture, una cultura di leggerezza e di temporaneità, fatta anche, e soprattutto, di memoria. A volte di leggero oblio.

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Le regole della memoria — ossia della storia e di quanto l’uomo ha fatto nel tempo, e della natura — quasi sempre convivono in un’architettura fatta di trasparenza e leggerezza, di capacità di costituire una superficie di contatto fra cultura e gente, di curiosità, di tante emozioni, spesso all’origine dei progetti. Le città possono essere luoghi di silenzio, di rifugio, dove l’ambiente sia rispettato attraverso un uso non invasivo della tecnologia, dove la luce naturale possa essere abilmente sfruttata e conduca al riposo della mente stanca e carica di rumori e pensieri.

“Lo studio di ogni architetto è fatto di spazio, sole e natura” — diceva il grande Le Corbusier – “e alcuni luoghi diversi da esso possono diventare uno spazio, un centro culturale aperto al mondo e sul mondo, un luogo interdisciplinare aperto all’incontro di esperienze tra i vari campi dell’arte, come letteratura, cinema e pittura”. Questi sono gli spazi che ama Piano, costruiti un po’ ovunque nel mondo (basti pensare al Beaubourg di Parigi o all’Auditorium-Parco della Musica di Roma). E poi, in generale, afferma Piano, “se l’acciaio snellisce, la leggerezza bisogna averla dentro, perché non è solo un fatto fisico, è un fatto mentale e anche filosofico: riguarda l’intelligenza, che deve essere leggera, permeabile, paziente, per aspettare fino a quando non ha trovato la soluzione giusta. L’architetto deve saper aspettare, perché questo è il solo modo per essere creativi, e la professione dell’architetto è un insieme di tecnica e di spiritualità, di creatività”.

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L’architettura è un’arte di frontiera, perché è contaminata da mille cose, è fecondata da mille espressioni: bisogna saper mescolare le discipline, come fa un abile pittore con i colori della sua tavolozza. Essa è servizio alla comunità, permette di guardarsi dentro e guardare dentro le cose, di creare con serenità e tensione, con calma ed energia, con lentezza e rapidità. Tutto allo stesso tempo. Servire la società, per un architetto, demiurgo della vita, significa principalmente far implodere le città che stanno per esplodere, assorbire i vuoti urbani provocati dal processo di de-industrializzazione, recuperare quei “buchi neri” provocati dalle aree industriali che si andavano liberando man mano che le città, crescendo, rendevano necessario lo spostamento delle attività produttive. La città si deve rigenerare, deve smettere di essere grigia e pesante, deve esprimere gioia, essere viva e intensa, bisogna provare a rimarginare le sue ferite. Sono le periferie invisibili, quelle che vanno salvate e ridate a nuova vita, perché anche qui possa sbarcare il concetto di “città felice”, ricordando Italo Calvino, il luogo fatto di incontri, di scambi, di contaminazioni, di contatto, di sorpresa, di suoni, dove la gente ami ritrovarsi e passeggiare, anche a zonzo, senza meta.

L’architetto sia dunque “sostenibile” (parola tanto di moda), rubando al mondo dall’ambiente, dalla natura, dai suoi elementi: pietre, acqua, aria, colori, vento. Per trovare sempre un piccolo angolo felice, anche dove non sembra, anche dove non pare possibile.

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