OTTOBRE — DICEMBRE 2017

Letteratura

Si celebrano i 150 anni dalla nascita di Luigi Pirandello, maestro della letteratura italiana

A cura di Anna Clemente

Strappiamo quel cielo di carta!

Quest’anno si celebrano i 150 anni dalla nascita di uno degli scrittori italiani più amati: Luigi Pirandello. Nato nel 1867 ad Agrigento, Sicilia, Pirandello fu uno scrittore incredibilmente prolifico e rivoluzionario nella sua poetica. Scrisse ben 251 novelle, iniziando nel 1884, a 17 anni, fino alla morte nel 1936. Compose 40 drammi, e proprio grazie alla sua capacità di rinnovare il genere teatrale, con espedienti come l’abbattere la quarta parete, ricevette nel 1934 il premio Nobel per la letteratura, per “la sua abilità quasi magica di trasformare analisi psicologica in buon teatro”.

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Pirandello è uno dei pochi autori classici italiani ancora letti e apprezzati dal grande pubblico, sia per le tematiche universali che affronta sia per il modo in cui lo fa. Vediamo di capire il successo e la poetica di questo geniale scrittore attraverso alcune opere chiave.

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È il caso di iniziare da Il fu Mattia Pascal, scritto nel 1904, il primo grande successo dell’autore. Riassumendo in breve una trama intricata, Mattia Pascal è l’erede della fortuna paterna, che però va in fumo anche per colpa del disonesto amministratore Batta Malagna. Mattia sposa la nipote di Malagna, Romilda, che è incinta di suo figlio. Anche la suocera va a vivere a casa di Mattia, che si sente disprezzato da entrambe. Trova un lavoro umile in una biblioteca, che tuttavia detesta. Mattia scappa, non riuscendo a sopportare la vita che conduce, e arriva a Montecarlo, dove diventa ricco vincendo alla roulette. Dopo aver letto su un giornale la notizia del ritrovamento di un cadavere che viene scambiato per lui, che è quindi presunto morto, ha l’opportunità di cambiare vita. Assume il nome di Adriano Meis e viaggia per un po’, finché non decide di trasferirsi a Roma, dove alloggia come pensionante dal signor Paleari. Si innamora di Adriana, la figlia del suo locatore, e ne è ricambiato. La sua identità fittizia però gli impedisce di sposarsi o di denunciare un furto subito, in quanto non esiste all’anagrafe. Decide quindi di intentare un finto suicidio. Ritorna al suo paese natale dopo due anni da che era stato dato per morto, ma nel frattempo sua moglie si è risposata. Si ritira così nella polverosa biblioteca dove aveva lavorato per scrivere la sua curiosa storia, portando ogni tanto una corona di fiori alla tomba del “fu Mattia Pascal”.

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Il romanzo è basato su un tema chiave del pensiero di Pirandello, l’idea che siamo tutti intrappolati in delle maschere, in cui la “forma” sopprime la “vita”. La forma è ciò che ci attribuisce la società, ingabbiandoci, e non rispecchia la nostra essenza interiore. Mattia prova a fuggire da questa forma, diventando Adriano, ma si accorge che non può vivere in società senza di essa, in quanto senza dati anagrafici è privato dalle leggi della possibilità di condurre una vita normale, non potendo neppure comprare un cane.

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Pirandello sul set di «Il fu Mattia Pascal»

Questa contraddizione tra forma e vita è ulteriormente sviluppata in un altro romanzo chiave dell’autore, Uno, nessuno e centomila. Il protagonista del romanzo, completato nel 1926, è Vitangelo Moscarda, un uomo del tutto comune che conduce una vita agiata grazie alla banca ereditata dal padre. La sua vita tranquilla viene interrotta da un commento scherzoso della moglie sul suo naso leggermente storto. Vitangelo, rendendosi conto che appare agli altri diversamente da come si vede, ha una crisi d’identità. Decide quindi di cambiare il suo stile di vita nella speranza di scoprire chi è veramente. Nel processo compie azioni che appaiono frutto di follia agli estranei, essendo contrarie a ciò che ha sempre fatto: sfratta una famiglia di affittuari solo per poi dar loro una casa, rinuncia all’essere un usuraio e alla banca. La moglie lo lascia e tenta di farlo interdire attraverso un’azione legale. L’unica che gli rimane vicino è Anna Rosa, un’amica della moglie, ma spaventata dai discorsi di Vitangelo gli spara. Il protagonista dona tutti i suoi beni materiali agli indigenti e si ritira in un ospizio. Qui finalmente troverà pace, in sintesi con la natura, avendo rinunciato a ogni regola, maschera e nome.

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Il punto centrale è che la nostra identità non è né unica né unitaria, ma formata da mille frammenti in continua evoluzione. Assumendo una maschera, fingiamo di avere un’unica identità, ma questa ci chiude in una gabbia, imprigionando la realtà in forme immutabili. Nella disgregazione dell’Io in centomila schegge e nella rinuncia a un nome, Vitangelo trova finalmente una forma di libertà, accettando la vita come divenire perenne, vivendo ogni istante come una continua rinascita. Come dice il famoso finale: “Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo”.

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Per Pirandello quindi l’annullazione totale dell’Io finisce per essere la più alta forma di libertà, in quanto fuori da ogni ordine sociale. In questo possiamo vedere la sua critica nei confronti della società borghese. Il fuggire da questa società e da una forma fissa sembra impossibile se non attraverso la follia, come ci mostrano le parabole di Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda. Per Pirandello infatti la pazzia è il più efficace strumento di contestazione delle false e ipocrite forme sociali, in quanto riducendo all’assurdo convenzioni e rituali mostra la loro insensatezza. Come nella poetica dell’autore lo specchio funge da espediente per distorcere grottescamente l’Io, così la follia fa lo stesso a livello della società.

Roma. Studio di Pirandello.
Roma. Studio di Pirandello.

È qui la chiave dello stile di Pirandello, che ne riflette il pessimismo filosofico: la scomposizione, deformazione e ironia mostrano il paradosso tra la “forma” e la “vita”; il paradosso diviene quindi strumento epistemologico per conoscere la realtà e rivelare i drammi basati sulle contraddizioni psicologiche dell’individuo. L’intento di Pirandello è di svelarne la realtà interiore e l’illogicità e angoscia che portano all’alienazione. Egli scrive in un periodo di crisi dei valori ottocenteschi e di fine delle certezze, senza nuovi valori o risposte alle vecchie domande sul senso della vita che ancora rimbombano. La disillusione nelle capacità razionali e scientifiche di rispondere a queste domande esistenziali si somma al disagio e al malessere contemporaneo. L’individuo si trova isolato, confuso e incapace di essere compreso e farsi comprendere. Tutto ciò nella cornice di un estremo relativismo, dove l’incertezza esteriore della società sui propri valori rispecchia l’incertezza interiore dell’individuo, incapace di ritrovarsi in un soggetto unitario, con una coscienza frammentata. Il crollo dei valori e la mancanza di un punto fermo mostrano la molteplicità del reale, che non ha più significati e significanti comuni.

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Questa molteplicità del reale si ritrova in una delle maggiori opere teatrali di Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, dove l’autore rinuncia a una forma fissa. Mentre sul palcoscenico sono in atto le prove di uno spettacolo di Pirandello (Il giuoco delle parti), arrivano in scena sei individui: il Padre, la Madre, il Figlio, la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina. Sono personaggi creati dalla fantasia di un autore ma poi rifiutati, e chiedono al Capocomico di mettere in scena il loro dramma, dando loro vita artistica. Gli attori tuttavia non riescono a rappresentare fedelmente il loro dramma reale e il loro vero essere: seppure la realtà che gli attori rappresentano è vera per le convenzioni sceniche, risulta falsa ai personaggi, in quanto la loro vita autentica e i loro veri sentimenti sono irrappresentabili e incomunicabili. Infatti il nostro linguaggio, per via delle convenzioni del parlato, non può accomodare la trasmissione di messaggi autentici e del nostro vero essere. Di nuovo il tema quindi è la contrapposizione tra “forma” e “vita”.

Sei personaggi in cerca d’autore fu un’opera rivoluzionaria per l’epoca, e la sua prima messinscena fu accolta al grido di “Manicomio! Manicomio!”. Con la scomparsa della quarta parete, i personaggi che emergono in scena dalla platea, i cambi di scena a sipario alzato, e il finale di difficile interpretazione (rimane il dubbio se la morte in scena della Bambina e del Giovinetto sia reale o meno), Pirandello cerca di rimuovere la barriera tra pubblico e palcoscenico, rendendo lo spettatore critico e attivo. L’opera fa saltare gli schemi narrativi tradizionali e con la sua svolta meta-teatrale rivoluziona il teatro borghese e europeo dell’epoca.

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Infine, un’ultima opera di cui consigliamo la lettura per chi vuole avvicinarsi a Pirandello e ha poco tempo da dedicare alla lettura. È la novella Il treno ha fischiato. La storia ha come protagonista il signor Belluca, un contabile intrappolato in una vita miserabile, con dodici bocche da sfamare e due lavori. Come ci racconta il narratore, è una vita insopportabile, e Belluca va avanti come “un vecchio mulo coi paraocchi”, prendendosi tutte le bastonate senza fiatare. Una sera sente un treno fischiare in lontananza e qualcosa in lui scatta. Si ribella al capoufficio, e in preda alla frenesia continua a ripetere “il treno ha fischiato”. Viene ricoverato in un ospedale psichiatrico, e quando il narratore va a trovarlo gli spiega ciò che è successo. Per molti anni vivendo in condizioni così infelici, si era  letteralmente dimenticato che esiste una vita al di fuori dei numeri da calcolare nel suo piccolo inferno. Sentendo fischiare il treno, si ricorda improvvisamente dell’esistenza di foreste nel Congo e dell’azzurro cielo della Siberia, dove viaggia con l’immaginazione. Egli finisce il suo racconto constatando che l’eccesso di fantasia lo ha inebriato, ma che si scuserà col capo e tornerà alla sua vita, solo che ogni tanto gli dovrà essere consentito di viaggiare con l’immaginazione.

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Il fischio del treno, un evento completamente casuale, gli rivela l’insensatezza della sua condizione, e lo porta a ribellarsi alla monotonia della sua vita. La storia ricorda Bartleby lo scrivano, un racconto di Herman Melville, con la sua celeberrima frase “preferirei di no” (I would prefer not to), resa popolare dal filosofo Slavoj Žižek. È uno sguardo lucido sulla modernità, e su come l’unico modo per svegliarsi e realizzare l’impotenza della nostra posizione è uscire di senno. O almeno essere considerati pazzi dal mondo, ma forse essere gli unici a vedere la nostra condizione per quel che è. Pirandello non offre risposte alle domande sul significato dell’esistenza, se non che con la sua feroce critica alla società borghese mostra che non c’è veramente un significato. Uno, nessuno e centomila è la celebrazione dell’alienazione da se stessi come unico modo per l’uomo moderno di rinunciare alle maschere che ci intrappolano e poter far parte del flusso vitale. Troviamo quindi un nichilismo positivo, quasi nietzschiano: è nell’accettazione che la vita non ha senso che finalmente possiamo vivere.

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Pirandello è ancora così apprezzato per la contemporaneità del suo pensiero, in quanto parla di temi in cui è facile rispecchiarsi, come l’idea della maschera e di come la società ci impedisce di realizzare il nostro vero essere. Il suo stile lo rende unico grazie alla sua riflessione in chiave critico-umoristica e alla mescolanza di tragico e comico. La sua ironia deforma e sovverte la realtà, mostrandoci ciò che c’è sotto. L’umorismo diventa strumento per analizzare la tragedia moderna, rivelando sotto ogni apparenza il suo contrario. Nell’esaminare il caos insensato dell’esistenza umana, per Pirandello, come per Mattia Pascal, narrare diventa “distrazione provvidenziale”. E allo stesso modo, possiamo trovare, se non risposte, distrazione, piacere e saggezza nel leggere questo grande autore.

OTTOBRE — DICEMBRE 2017