№ 1 GENNAIO - FEBBRAIO 2017

Personaggio

Dario Fo, ovvero il potere della lingua mascherata

A cura di Alessandro Piazza

La rivoluzione del linguaggio del premio Nobel recentemente scomparso

Molto si è detto su Fo zoon politikon, l’uomo dell’impegno civile: l’arruolamento nella Repubblica sociale italiana, appendice stracciona e decadente del Ventennio, l’impegno accanto alla compagna d’arte e di vita Franca Rame negli anni Sessanta con Soccorso Rosso e con il teatro sociale, l’attività civile fino agli ultimi anni.

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Poca e non altrettanto morbosa attenzione è stata invece dedicata alla parola, al linguaggio innovativo dell’attore, scrittore, commediografo, scenografo, costumista e regista, nato a Sangiano nel 1926, premio Nobel per la letteratura. La motivazione dell’Accademia reale svedese che gli conferì il prestigioso premio il 9 ottobre 1997 aiuta a capire: “Perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”. Il giullare appunto, l’essere multiplo, il ciarlatano, il fool shakespeariano che si esibisce alla corte del re, guardato con sospetto dalla Chiesa cattolica, amato e rinnegato, quello che può dire tutto a chi comanda, a lui è lecito ironizzare sul potere proprio perché è mascherato. Ha una la lingua biforcuta, parla la parola doppia, apparentemente assurda e demenziale, il potere stabilito non gli consente alternative. Ma non per questo il discendente dei trovatori è meno esplosivo, dissacrante e innocuo. Ha un suo armamentario linguistico solido, inattaccabile: il grammelot. Una lingua inventata, le cui parole non significano niente ma che imitano nel suono e nella cadenza la lingua e la mimica ufficiali. Un idioma nato dalla fusione dei dialetti di diverse zone d’Europa, dalla Val Padana alla Francia. Possiede inoltre una mimica peculiare che vezzeggia e scimmiotta papi, re, governanti. La forza del grammelot sta nell’interazione tra i due livelli che lo compongono, quello sonoro e quello gestuale.

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Emblematico di questa rivoluzionaria maniera di affabulare è Mistero buffo del 1969. Ispirata ai vangeli apocrifi, l’opera è un insieme di monologhi che narrano episodi biblici in modo inconsueto: dalla Resurrezione di Lazzaro al Miracolo delle nozze di Cana. Lo spettacolo, come si può capire, va ascoltato piuttosto che narrato, ma vale la pena di citare un passo dedicato a Bonifacio VIII:

“Va ricordato un vezzo che aveva Bonifacio VIII: quello di far inchiodare per la lingua dei frati, ai portoni di certe città. Poiché questi frati legati alla povertà avevano la cattiva abitudine di andare a parlar male dei signori, allora il Papa li prendeva e ZACK…”. La corporeità dell’attore esprime il lazzo, il sarcasmo, la contraddizione tra parola e intenzione attraverso la deformazione della parola, il contorcimento delle mascelle e di ogni singolo muscolo. Il risultato è dirompente, perché la forma scenica è esplosiva. E anche evocativa: come non andare con la memoria alle figure sanguinarie e poco caritatevoli di alcuni pontefici che fecero del messaggio biblico un’arma di potere? Non si tratta quindi di teatro sociale a tesi o, come si diceva, impegnato. Abbiamo a che fare con un organigramma teatrale che ha il suo specifico alfabeto semantico ma con un impatto sulla società.

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Come disse Dario Fo: “Erano anni (ndr. i Sessanta) di  dolori, violenze, sgomberi, bombe nei teatri, la casa incendiata, nessuno che voleva più affittarcene a Milano, 40 processi. Noi mandavano sempre il copione per il visto di censura, ma era la pantomina a farli arrabbiare. Capitava che mimando un personaggio io lo trasformassi in un Andreotti. In una tournée raccoglievo anche 260 denunce”.

L’operazione del drammaturgo lombardo non è originalissima e unica nella storia dell’arte del Novecento: gran parte della letteratura afroamericana ricorre alla “parola rubata” dei Vangeli o di altri testi ufficiali rivoltandoli dal di dentro, mostrandone la vacuità. Così come la poetica di Bob Dylan – strane coincidenze, al menestrello del Minnesota fu conferito il premio Nobel lo stesso giorno della morte di Fo – che narra il presente trasfigurandolo, non copiandolo. La parola doppia che colpisce più di uno slogan.

№ 1 GENNAIO - FEBBRAIO 2017